sabato 5 dicembre 2020

The Fall

 L’autunno porta un sentimento di nostalgia diffusa che io coccolo particolarmente.

Stanotte ho sognato uno dei miei ex. Sognare ex fa parte dei miei riti inconsci per rinverdire la sensazione di gioventù. Tipicamente, in autunno, io sto là a crogiolarmi nella saudade per gli Stati Uniti, cerco ricette di pumpkin pie, mi entusiasmo per Halloween e non vedo l’ora di andare in giro con Nadia a fare “trick or treat” e intagliare zucche. Paradossalmente, quanto più si avvicina il Natale tanto più questo sentimento svanisce e un tipico “winter blues” prende il suo posto.

Poi sogni un ex - uno dei migliori, va detto – e sei sbalzato in una diversa dimensione temporale. Io odio lasciar andare via le persone. Mi terrei stretto chiunque – quasi chiunque – e vorrei poter trascorrere almeno una serata all’anno a bere vino e a ricordare aneddoti insieme. (Non so perché’ la gente a questo punto o inorridisce o mette in mezzo il sesso. Dettagli trascurabili.)

Sognare un ex per fermare il tempo. Una relazione intermittente andata avanti per anni, senza che nessuno si sia fatto male, senza sotterfugi, mind games, senza doversi raccontare bugie, mai. Senza amore ma con tanto affetto. Con regole chiare e condivise. Il migliore friend con benefit immaginabile quando ancora non esisteva neppure la parola. Fossi stata un po’ più consapevole avrei eliminato qualche scena da melodramma ma insomma, all’epoca faceva parte del personaggio.

Ho dei bellissimi ricordi di questa persona. Ricordi di passeggiate, di nottate rubate, di canzoni di Vasco, di partite a poker, di prime volte – e scrivere “cocktail, sesso, droga e rock ‘n roll” fa usurato ma lo stesso figo. Amavamo D’annunzio e Neruda, andare ad Acciaroli e vederci di nascosto. Il nostro “ballare sul mondo”.

Non ho niente contro il presente, pandemia a parte, ma io son fatta così: mi piace avere lo sguardo rivolto al passato. Pescare tra le parole di ieri per dare piu’ spessore all’oggi. Un “vizio che non voglio smettere, smettere mai”…

giovedì 2 luglio 2020

Stay with me


Sogno un amore come quello di Marina Abramovich e di Ulay. O meglio, sogno la fine di un amore da romanzo, come è stato per loro.
La fine delle relazioni è, generalmente, un mix grottesco assai. Non è che si decide di partire insieme per un ultimo viaggio, attraversare la muraglia cinese a piedi, lasciarsi alla fine del percorso facendo ancora pochi metri mano nella mano, non rivolgendosi più la parola. Niente che sia sopra le righe, al massimo un po’ radical-chic.

Rivedersi dopo anni, tanti anni, di silenzio. Rincontrarsi non per caso, ma per scelta, ad una performance dal vivo di lei.

La Abramovich accoglieva chiunque volesse sedere di fronte a lei per alcuni minuti, a patto di non dire una parola e di guardarsi negli occhi. Persone in fila attendono il proprio turno. A sorpresa, fra queste, Ulay. Marina è visibilmente meravigliata nel ritrovarselo davanti, pronto ad accomodarsi su quella sedia. Lì per lì, ci ho sempre letto un’ombra di sconcerto, sul volto di lei.
Almeno, è come avrei reagito io. Non puoi difenderti mentre sei su quel palco e lui le gioca un tiro un po’ mancino, dai. Tuttavia, son tutti e due senza rete, senza protezioni e in balia dei propri sentimenti. Forse è per questo che il volto dell’artista si distende subito. La commozione è totale, scorrono le lacrime. Piangono, Marina e Ulay. Io non credo sia dispiacere e neppure rimpianto. È la commozione del ritrovarsi – due che si conoscevano nell’anima – e del perdersi di nuovo, inesorabilmente. Son le lacrime di chi si guarda negli occhi, ma guarda per davvero, mettendosi a nudo una volta di più. Accarezzando i ricordi con indicibile tenerezza.

Nella mia testa, pur non essendo una gran fan della Abramovich, quei due in quel momento esatto rappresentano l’icona degli amanti perfetti. Senza vincoli e senza nodi, ma legati da corde invisibili e potenti. Non hanno bisogno di parole, né per lasciarsi ne’ per stare insieme. Un legame indissolubile eppure sbagliato, che non può sopportare le provocazioni della vita. Che resta, nonostante tutto. Che causa lacrime e costernazione, pietà e affetto pur senza che ci sia una promessa, un domani o un presente. Che esiste per una manciata di minuti e poi scompare di nuovo, ma esiste – e lo fa urlandolo al mondo con tutta l’intensità di cui è capace. Tutto l'amore che c'e', c'e' stato e ci sara': se hai amato qualcuno una volta, continuerai ad amarlo per sempre.

Trovatemi qualcosa di reale e di più romantico, se ci riuscite. Non c’è, non vi affannate. E il video di Marina Abramovich che incontra di nuovo Ulay rimarrà come l’archetipo più compiuto di tutti gli amanti del mondo.

martedì 30 giugno 2020

Tick Tack. Tick Tack.


La terza stagione di Dark è terminata. Dark è terminato. Vedere Dark è un’esperienza immersiva notevole. Non solo per il grado di concentrazione richiesto nel tenere a mente le innumerevoli connessioni familiari ma anche a causa del mood nel quale mi fa sprofondare per qualche giorno almeno.

Dark fa pensare allo scorrere del tempo – implacabile – e alle svariate possibilità di fronte alle quali si è messi giorno dopo giorno. Alle costanti “sliding doors” che determinano la nostra vita. Io, che di base sono ammalata di saudade, ci vado a nozze, divorzio e mi risposo pure con questo genere di sentimenti.

E visto che non c’è due senza tre, ho messo su Tiziano Ferro e Adele. Come a dire, meglio deprimersi per bene, senza scampo. Il mio pezzo preferito di Adele è “When we were young”:

“Let me photograph you in this light
In case it is the last time
That we might be exactly like we were
Before we realized
We were sad of getting old
It made us restless.”


Un po’ il mio manifesto di vita, ecco.

Potessi fare esattamente quello che mi aggrada, metterei la canzone a loop per ore (come faccio sempre quando qualcosa mi ossessiona) e piangerei a dirotto. Tuttavia, ho una spalla di agnello in forno che chiede di essere rosolata a puntino, mia figlia che mima qualcosa dalla finestra del salotto chiedendo attenzioni, mio marito che chiede info disparate.

Io, mi chiedo che fine hanno fatto gli anni trascorsi. Le persone che li hanno popolati, la maggior parte delle quali non ho fatto in tempo a immortalare in una foto. Pensate che io e la mia migliore amica avremo sì e no una decina di foto insieme, eliminando quelle dei rispettivi matrimoni, nonostante ci conosciamo da oltre 20 anni. Una lunga serie di ex fidanzati non hanno neppure quelle.

Nascondo le prove delle mie relazioni. Non che debba, è che mi capita.

E così, non ho fotografie da guardare per ripensare a ciò che è stato e più non è. Per ripescare luci e persone di quando ero (più) giovane. Ho quello che scrivo e tutto quello che ricordo, che è generalmente dettagliatissimo e accurato, ma ho pochissime immagini stampate a supporto. Tutte mentali. Che importa. Saremo sempre diversi da quell’ultima foto scattata. Sempre diversi da quell’istante che abbiamo scolpito nella memoria. Saremo sempre altro.

C’è un’istantanea di me alla quale sono particolarmente affezionata. Uno scatto rubato, in cui al centro della scena non ci sarei neppure io.. La quintessenza dell’attimo fuggente. Me l’ha scattata una persona che non fa più parte della mia vita ma che è stata fondamentale in uno dei miei momenti di passaggio; in un luogo che era il mio “non-luogo” preferito ma nel quale non metto piede da anni; nella quale appaio castana e non bionda, come mio solito, per l’erronea convinzione di piacere di più a quello che era il mio fidanzato dell’epoca; circondata da amici di cui ho perso quasi tutte le tracce; ad ascoltare musica che non trovo più interessante da parecchio; vestita di celeste per un vecchio vezzo che mi serviva a ricordare un amore passato. Un abisso tra la me di ora e la me di allora. 

In mezzo: decenni, figli, lauree, matrimoni, pandemie, crociere, Usa, espatri, rientri a casa, delusioni, certezze, Stoccolma e il Giappone. Troppe persone che vanno via.

Non vi preoccupate: ora mi riprendo. Metto su Cohen.

giovedì 11 giugno 2020

Blu Notte

Ho deciso di regalarmi un profumo nuovo. Vabbe’, non faccio vita sociale – grazie pandemia – ma e’ lenitivo per l’anima indossare una fragranza.
Un po’ di shopping on line qui, un po’ li’… no, ma non puoi acquistare un profumo senza averlo mai annusato e poi - bam! La tranvata. E’ che Oscar Wilde aveva ragione: tu puoi crederti salvo e forte quanto ti pare, poi basta una nota di colore in un cielo mattinale, un odore che avevi dimenticato e che ti porta sottili ricordi, il verso di una lirica caduta nell’oblio, una musica che non suoni da tempo, insomma: da cose come queste dipende la nostra vita.

E la mia, per un certo periodo di tempo, e’ dipesa anche da una specifica acqua di profumo, Blu Notte di Bulgari. Era una sorta di malattia. Conservavo stick profumati nei libri e nei diari. Andavo in giro e ne spruzzavo generose quantita’ sui miei vestiti. Son arrivata al punto della nausea, per il profumo e per la persona che era solita indossarlo. Blu Notte fa parte della mia memoria olfattiva, insieme a Fahrenheit e a Chrome di Azzaro.

Poi c’e’ mia cognata. Vedo poco mia cognata, causa lontananza geografica, ma ogni volta che ci incontriamo non posso fare a meno di notare il profumo che indossa. Non vi nascondo che ne ho comprati diversi tra quelli che è solita usare tuttavia, come funzionano su di lei, su di me, mai. Mia cognata sembra sempre essere uscita da una nuvola odorosa, pure dopo una giornata di lavoro. Arriva, e lascia il segno. Anche nel mio portafogli, che in genere si alleggerisce un po’ al duty free sulla strada del ritorno. E pero’, non riesco mai a ottenere quell’effetto travolgente che - evidentemente senza neppure rendersene conto – ottiene lei.

Fortuna che mi avvio per i 40 e che ho imparato a tenere a bada le mie ossessioni. Non vado piu’ a impregnare pagine di diario con la scusa di voler comprare un regalo, non vado piu’ nelle librerie a leggere libri a scrocco e evito anche di stalkerare le persone per scoprire se possiedono vaporizzatori portatili per rinfrescarsi sulla strada di casa. Certe cose, vanno lasciate all’immaginazione…

giovedì 16 aprile 2020

Terremoti


“Immagino che ciascuno si racconti la storia che riesce a sopportare. È il tempo che distorce i ricordi, ma poi la mente li modifica anche in funzione di chi siamo e di chi vogliamo diventare.
La realtà? beh, la realtà è differente, fosse solo per la scala temporale di riferimento. Un migliaio di giorni per un bacio, cinque settimane per finire a letto insieme. E poi: sei anni per dimenticarcene, quattro per perdonarcelo, due per ammettere di aver sbagliato. Questa la magnitudo del nostro rapporto. Come in una scala Richter dei sentimenti, dove si usano gli anni per misurare l'intensità della devastazione provocata da un incontro. Sì, direi che funziona. È originale, sapiente, accurato.
Rewind, torniamo indietro.
Eravamo ossessionati e indifferenti, crudeli e teneri, appassionati e malefici. E tutte le sfumature nel mezzo. Cinici, struggenti, vanitosi, incoscienti, falsi, veri, grigi e a colori.
Ora, ci potremmo raccontare di tutto e negare di tutto. Perché è vero che bastava uno sguardo per accendere i sensi e che non era abbastanza un pomeriggio di lacrime per farti tornare sui tuoi passi. Potevamo chiacchierare una notte intera senza mai cedere al sonno e potevamo restare muti per anni, come se non ci fossimo mai incontrati. Eravamo fatti della stessa sostanza di cui son fatti i sogni: volatili, evanescenti, senza logica alcuna.
Ormai, ho deciso cosa sei per me. Sei ciò che mi fa scrivere. Tu, il fantasma che tiene in vita le mie parole su carta. Finzione, un prop di scena. L'arte pretende faglie in movimento. Io, una specie di San Francisco che oscilla per le scosse, si riassesta, butta giù pensieri, poi riprende a vivere come se niente fosse. Mi piace: uno sconquasso e dei grattacieli. Radici e verticalità.
Passato e futuro. Vita, di quel tipo che piacerebbe a Bukowski.”

martedì 7 aprile 2020

Il senso di unicità


Mia cugina mi chiede pezzi intimisti e filosofici. Nel mezzo di una pandemia. Non so quanto si possa scrivere senza aggiungere scompensi a tristezza. Per dirvi, io erano tre settimane che avevo interrotto la lettura di Dan Savage. Non che metta di cattivo umore anzi, ma mi sembrava troppo futile per tenere il passo con le news sul covid-19.
Poi arriva il giorno della saturazione, riprendi in mano qualche vecchia abitudine, ti cade qualche lacrima sulle foto di Berlino 2019 e riapri quei file mai terminati da anni. Con qualche licenza poetica, ecco a voi:

`Se almeno non avessimo preso decisioni irreversibili nei mesi passati avremmo reso questo lockdown più sopportabile con i soliti scazzi. O forse mi illudo. La verità è che pagherei oro per qualsiasi tipo di normalità, perfino quella che ci vede intenti a tirarci le pietre più appuntite dai muretti delle nostre incomprensioni.
La normalità del nostro rapporto altalenante funzionerebbe meglio di quest’insipienza dovuta alle comunicazioni messe in stand-by. E no, non ditemi che usciamo sui balconi a cantare, applaudire, fare video chat. Tutto questo non ha niente a che vedere con noi due, noi che eravamo distanti già prima e che – forse – lo siamo sempre stati.
Mi illudevo che avrei trovato la serenità. Via tu, via il dolore. Invece, tu non ci sei e non c’è più nessuno che mi tenga sveglia la notte a imprecare; nessuno da mandare al diavolo. Siamo io, i miei pensieri e il covid-19. Che non è un androide umanoide, nessun finale alla Blade Runner.
Rivoglio indietro la nostra storia obliqua. Solo il tempo di sopravvivere ad una pandemia. Ho bisogno di litigare con un essere umano e non con la paura che si insinua sotto pelle, nello stomaco, nei polmoni. Ho bisogno di sentirmi viva e non sapere di esserlo solo perché’ domani mi attende un’altra fila al supermercato. Torniamo sui nostri passi: giusto il tempo di divorare questa solitudine che ci inghiotte. Avevamo previsto tutto, tranne il mondo che si ferma da New York a Seul. Non so dove scappare. Siamo tutti impantanati in un eterno presente senza futuro prevedibile: dammi almeno il conforto del passato.
Una pausa nella pausa. No, sto mentendo, lo so che ci eravamo detti addio. Ma fingiamo sia stato solo un arrivederci. La realtà della nostra delusione riesco a toccarla con mano: basta nemici invisibili, regaliamoci il lusso di un impropero di persona. A due metri di distanza, ma forse mai così vicini.`

venerdì 10 gennaio 2020

Mamma, quand'è che andiamo in Australia?


Quest'anno mi lancio. Sarò incosciente e punita per la mia iubris, ma ci devo provare. Quest'anno ho comprato un paio di voli a ORARI SCOMODI per Nadia. Che si intende tipo, partenza da Belfast alle 7 del mattino o atterraggio alle 8.25 di sera. Lo so, per la maggior parte del mondo parliamo di voli perfettamente normali, ma Nadia non è la maggior parte del mondo.
Chi mi conosce bene sa che, prima di avere il ghiro Nadia, ero una viaggiatrice entusiasta. Ho discretamente girato il mondo e, sebbene a quasi ogni decollo scoppiassi in lacrime, ho preso un numero incalcolabile di aerei, a breve lungo e medio raggio. Ho fatto la turista raffinata e scalcagnata. Insomma, questo per dire che uno dei miei ferrei propositi in gravidanza era senza dubbio che mai e poi mai avrei trascorso le ferie a Riccione beach. Già sognavo il Sud Africa, il Brasile o una crociera in Antartide ecco.
Poi è nata. Ora, i primi tempi l'unica cosa che vuoi fare è dormire, figuriamoci se pensi a dover affrontare un jet lag. Ci vivi già immerso senza possibilità di recupero.
Tuttavia, decisi ugualmente di testarci come nuova famigliola di tre andando ad Amsterdam. D'altra parte, a chi non viene subito in mente Amsterdam come meta perfetta per un viaggio con neonati!
La realtà è che Amsterdam con un passeggino è un incubo ma questo lo lascio per un'altra volta.
Comunque sia, ad esser sinceri, Nadia ha iniziato a dormire tutta la notte per 12 ore filate quando aveva solo 2 mesi e mezzo di vita. Lo so che per molti di voi ho vinto alla lotteria. Ma lei è estremamente abitudinaria, e quando dico estramemente intendo anche di più.
Tra l'altro, puoi sconvolgerle tutto ma non il sonno. Quando è stanca, quando la sua routine viene alterata, quando viaggia, quando va a scuola (!) la sua reazione è sempre una: dormire.
Nadia va in letargo. Per esempio, quando abbiamo detto addio ai pannolini Nadia è stata in grado di dormire filato dall 8 di sera alle 11.30+ del mattino per oltre una settimana. Robe che la mia health visitor ha ricevuto per la prima volta in carriera telefonate di una madre allarmata perchè la figlia dormiva anche 16 ore a notte senza colpo ferire.
Come posso mai affrontare voli intercontinentali, scali e cambi di fuso con una bimba così? L'anno scorso siamo stati in Spagna. Accidenti a loro, il ristorante del resort non apriva prima delle 20. Nadia va a letto alle 19.30 max ora UK. Insomma, nonostante l'aiutino dell'ora in più capirete bene che non potevo in nessun modo metterla a letto prima delle 21 a voler essere ottimisti.
La sua reazione? Sonnambulismo, terrore notturno, confusione mentale, stanchezza cronica.
Mia figlia va in tilt.
Ricordo la prima volta che la portammo a Waldmunchen. Osammo arrivare alle 6pm dopo una giornata di viaggio. Nadia era incontrollabile, piangeva disperata, si buttò a letto senza cena e si risvegliò il giorno dopo alle 9.
Questa è la mia bambina. Che io adoro eh, perchè so bene che devo baciarmi i gomiti per averne una così in dotazione. Tuttavia...
Stamattina si sveglia e mi fa: "Mamma, quand'è che andiamo in Australia?"
Figlia mia, tu non reggi un'ora di fuso, come ti posso mai portare in Australia? Io sto ancora facendo il pari e dispari per il volo di Alicante che parte alle 7, e tu mi parli dell'Australia?
Perchè lei vuole viaggiare in realtà. In qualche modo, con mille compromessi, pur muovendoci soltanto in Europa (vicina Europa), Nadia ci ha preso gusto.
Disegna aerei, gioca con il padre su Google Earth, chiede di andare a Arandelle e in posti con piscina, vuole vedere con i suoi occhi se è vero che la Russia è così grande come dicono.
E io non vedo l'ora di accontentarla.
Specie quando Google Maps Timeline ti manda il riepilogo dei tuoi spostamenti per il 2019 e il viaggio in evidenza dell'anno è a Scafati. Potete ridere. Appena pochi anni fa avrebbe avuto l'imbarazzo della scelta - il caro Google - tra Tokyo, Taiwan, New York e chi più ne ha più ne metta. Ora, mi sento appagata per esser andata a Berlino con la Zappalà (scusa Zappalà).
Fatemi solo un favore, voi che non avete di queste limitazioni: risparmiatemi le vostre Timeline. Vi odio già abbastanza così! :P