domenica 6 giugno 2021

Becoming a Woman

 Ricordo ancora benissimo quella sensazione di impotenza.

Non muoversi, non agitarsi, non dire le parole sbagliate. Perché in quella stanza ci siete solo tu e lui – il tuo capo. Il telefono non ha ricezione. L’ufficio è ormai deserto. Potrebbe fare quello che dice di volere da te, e pretenderlo con la forza.

Ricordo ancora la sua faccia rossa, stravolta, la vena sul collo gonfia per l’eccitazione.

Il mio disgusto, mascherato da arrendevolezza per non farlo innervosire, per riuscire a scappar via senza che dalle parole si passasse ai fatti.

Mi venne detto che ero stata scelta per lavorare lì perché “avevo un bel faccino”, che il vestitino celeste che avevo indossato una volta era un chiaro “invito”. Che avrei potuto continuare a lavorare --certo- se avessi accettato le sue condizioni.

Ricordo ancora il suo ghigno sguaiato davanti alle mie risposte ingenue, alle mie obiezioni naïve.

Corsi via, quella sera, volando per due rampe di scale, immergendomi nelle vie addobbate a festa e colme di gente. Mi sentii protetta dalla folla.

Lui provò a contattarmi il giorno successivo. Non per scusarsi, no, ma per chiedermi se io non avessi casomai cambiato idea.

Mi venne da vomitare.

Ho raccontato di questa molestia a pochissime persone. Quasi nessun’ “amica” dell’epoca mi mostrò solidarietà. Ho nascosto quest’esperienza repellente in un angolino della mia mente, sotto le etichette del “è capitato a tutte” e “mi è andata bene”.

Ero giovane, inesperta e certamente con una coscienza di me molto meno radicata. Non considerai il poter denunciare il ricatto subito giacche’ ero convinta che sarebbe stata la mia parola contro la sua: un uomo potente e rispettato – e mi fa schifo sapere che lo è ancora adesso.

Avevo paura di non essere creduta, di essere additata come “quella che se l’è cercata” solo perché magari avevo davvero indossato un vestitino celeste inappropriato – così allegro, colorato; solo perché davvero avevo accettato di prendere il caffè al bar insieme la mattina prima di iniziare a lavorare.

Come se fossi io a dover chiedere scusa per occupare uno spazio in modo personale, per essere vivace, non diffidente. Per essere me stessa. Come se l’aver detto sì ad una colazione di lavoro implicasse il dire sì ad inginocchiarsi dietro ad una scrivania per mantenere un impiego.

Avevo competenze e bravura, lo sapevo allora e lo so adesso. Ho una discreta autostima, e ciononostante mi feri molto essermi sentita dire che ero stata scelta per il mio “bel faccino”. Aver subito il ricatto di poter continuare a fare un lavoro che amavo, e nel quale mettevo impegno e passione, solo se fossi diventata l’amante del capo è stato prima di tutto un modo per sminuire la mia professionalità, e poi per insidiarmi come persona.

Oggi, nonostante siamo stati inondati di dichiarazioni post #metoo la mia esperienza potrebbe passare in sordina, in secondo piano, agli occhi di tanti benpensanti. In fin dei conti “non è successo niente”. E invece no. È successo tutto. Non c’è bisogno di consumare una violenza per avere il diritto di provare disagio e imbarazzo. Le avances sul posto di lavoro non son semplici avances. Minano l’amor proprio, innescano meccanismi ricattatori, svalutano sistematicamente chi le subisce. Principalmente donne, principalmente giovani.

La persona che son diventata oggi non esiterebbe a mettere alla gogna questo sedicente professionista, ma la ragazza che ero è soltanto riuscita a far finta di niente, domandandosi tuttavia per molto tempo se qualcuno avrebbe mai creduto alle sue parole e incassando sorrisetti maliziosi o – nel migliore dei casi – sguardi sconsolati.

Quell’uomo ha potuto probabilmente nutrire il suo ego con il mio sentirmi impotente, con la mia espressione sconvolta, con la mia rabbia per essere stata trattata ingiustamente. Ha potuto esercitare un potere derivato dal ricatto e, probabilmente, avrà goduto nel continuare a farlo. Ecco, se c’è un solo motivo per il quale mi sento in colpa adesso, è questo. Nessuno lo avrà fermato. Pensare che esseri simili possano – un domani – trattare mia figlia allo stesso modo, è l’unica ragione per cui posso avercela con me stessa.

Nel tempo, grazie ad una buona educazione, ho avuto la fortuna di aver introiettato un’idea di rispetto, di femminismo e di giustizia che mi hanno portato a comprendere l’errore alla base di certi meccanismi automatici di pensiero, spesso sovrapposti ad arretratezza, degrado o inconsapevolezza. Ho sposato un uomo che non sa che farsene del concetto di mascolinità tossica propinato spesso con molto fervore. Ho avuto ex (ex mica per caso) che si son pavoneggiati nell’aver inflitto lo stesso trattamento da “oggetto sessuale” alle proprie stagiste. Ho conosciuto donne che occupano posti dirigenziali ricevere complimenti dal capoufficio maschio di turno per “essere tornate in forma dopo il parto”, come se questo ne determinasse le performance lavorative. Ho conosciute donne licenziate perché incinte.

Ma ho anche incontrato donne promosse durante la maternità. Ho avuto amici che hanno usufruito di tutto il congedo di paternità disponibile, trascorrendo mesi a casa con i propri bambini. Ho incontrato burocrati illuminati che hanno scelto persone per incarichi di responsabilità solo sulla base di competenze. Ho amiche che insegnano alle proprie figlie ad essere donne informate e in grado di autodeterminarsi.

E alla fine, dopo anni e anni trascorsi lontana dal profondo degrado di molti ambienti lavorativi italiani, son riuscita a perdonare me stessa per essere stata incapace di far sentire la mia voce quando avrei potuto.

Alle ragazze di oggi, a quelle di domani, a mia cugina, a mia figlia: a loro, e a loro soltanto, dovremmo noi tutti delle scuse. Per pretendere, spesso, quello che le loro madri e le loro nonne, i loro padri e i loro fratelli non son riusciti a fare: avanzare senza paura nel difenderne i diritti.

 

"One is not born, but rather becomes, a woman." Simone De Beauvoir