giovedì 16 aprile 2020

Terremoti


“Immagino che ciascuno si racconti la storia che riesce a sopportare. È il tempo che distorce i ricordi, ma poi la mente li modifica anche in funzione di chi siamo e di chi vogliamo diventare.
La realtà? beh, la realtà è differente, fosse solo per la scala temporale di riferimento. Un migliaio di giorni per un bacio, cinque settimane per finire a letto insieme. E poi: sei anni per dimenticarcene, quattro per perdonarcelo, due per ammettere di aver sbagliato. Questa la magnitudo del nostro rapporto. Come in una scala Richter dei sentimenti, dove si usano gli anni per misurare l'intensità della devastazione provocata da un incontro. Sì, direi che funziona. È originale, sapiente, accurato.
Rewind, torniamo indietro.
Eravamo ossessionati e indifferenti, crudeli e teneri, appassionati e malefici. E tutte le sfumature nel mezzo. Cinici, struggenti, vanitosi, incoscienti, falsi, veri, grigi e a colori.
Ora, ci potremmo raccontare di tutto e negare di tutto. Perché è vero che bastava uno sguardo per accendere i sensi e che non era abbastanza un pomeriggio di lacrime per farti tornare sui tuoi passi. Potevamo chiacchierare una notte intera senza mai cedere al sonno e potevamo restare muti per anni, come se non ci fossimo mai incontrati. Eravamo fatti della stessa sostanza di cui son fatti i sogni: volatili, evanescenti, senza logica alcuna.
Ormai, ho deciso cosa sei per me. Sei ciò che mi fa scrivere. Tu, il fantasma che tiene in vita le mie parole su carta. Finzione, un prop di scena. L'arte pretende faglie in movimento. Io, una specie di San Francisco che oscilla per le scosse, si riassesta, butta giù pensieri, poi riprende a vivere come se niente fosse. Mi piace: uno sconquasso e dei grattacieli. Radici e verticalità.
Passato e futuro. Vita, di quel tipo che piacerebbe a Bukowski.”

martedì 7 aprile 2020

Il senso di unicità


Mia cugina mi chiede pezzi intimisti e filosofici. Nel mezzo di una pandemia. Non so quanto si possa scrivere senza aggiungere scompensi a tristezza. Per dirvi, io erano tre settimane che avevo interrotto la lettura di Dan Savage. Non che metta di cattivo umore anzi, ma mi sembrava troppo futile per tenere il passo con le news sul covid-19.
Poi arriva il giorno della saturazione, riprendi in mano qualche vecchia abitudine, ti cade qualche lacrima sulle foto di Berlino 2019 e riapri quei file mai terminati da anni. Con qualche licenza poetica, ecco a voi:

`Se almeno non avessimo preso decisioni irreversibili nei mesi passati avremmo reso questo lockdown più sopportabile con i soliti scazzi. O forse mi illudo. La verità è che pagherei oro per qualsiasi tipo di normalità, perfino quella che ci vede intenti a tirarci le pietre più appuntite dai muretti delle nostre incomprensioni.
La normalità del nostro rapporto altalenante funzionerebbe meglio di quest’insipienza dovuta alle comunicazioni messe in stand-by. E no, non ditemi che usciamo sui balconi a cantare, applaudire, fare video chat. Tutto questo non ha niente a che vedere con noi due, noi che eravamo distanti già prima e che – forse – lo siamo sempre stati.
Mi illudevo che avrei trovato la serenità. Via tu, via il dolore. Invece, tu non ci sei e non c’è più nessuno che mi tenga sveglia la notte a imprecare; nessuno da mandare al diavolo. Siamo io, i miei pensieri e il covid-19. Che non è un androide umanoide, nessun finale alla Blade Runner.
Rivoglio indietro la nostra storia obliqua. Solo il tempo di sopravvivere ad una pandemia. Ho bisogno di litigare con un essere umano e non con la paura che si insinua sotto pelle, nello stomaco, nei polmoni. Ho bisogno di sentirmi viva e non sapere di esserlo solo perché’ domani mi attende un’altra fila al supermercato. Torniamo sui nostri passi: giusto il tempo di divorare questa solitudine che ci inghiotte. Avevamo previsto tutto, tranne il mondo che si ferma da New York a Seul. Non so dove scappare. Siamo tutti impantanati in un eterno presente senza futuro prevedibile: dammi almeno il conforto del passato.
Una pausa nella pausa. No, sto mentendo, lo so che ci eravamo detti addio. Ma fingiamo sia stato solo un arrivederci. La realtà della nostra delusione riesco a toccarla con mano: basta nemici invisibili, regaliamoci il lusso di un impropero di persona. A due metri di distanza, ma forse mai così vicini.`