Ricordo ancora benissimo quella sensazione di impotenza.
Non muoversi, non
agitarsi, non dire le parole sbagliate. Perché in quella stanza ci siete solo
tu e lui – il tuo capo. Il telefono non ha ricezione. L’ufficio è ormai
deserto. Potrebbe fare quello che dice di volere da te, e pretenderlo con la
forza.
Ricordo ancora la
sua faccia rossa, stravolta, la vena sul collo gonfia per l’eccitazione.
Il mio disgusto,
mascherato da arrendevolezza per non farlo innervosire, per riuscire a scappar
via senza che dalle parole si passasse ai fatti.
Mi venne detto
che ero stata scelta per lavorare lì perché “avevo un bel faccino”, che il
vestitino celeste che avevo indossato una volta era un chiaro “invito”. Che
avrei potuto continuare a lavorare --certo- se avessi accettato le sue
condizioni.
Ricordo ancora il
suo ghigno sguaiato davanti alle mie risposte ingenue, alle mie obiezioni
naïve.
Corsi via, quella
sera, volando per due rampe di scale, immergendomi nelle vie addobbate a festa
e colme di gente. Mi sentii protetta dalla folla.
Lui provò a
contattarmi il giorno successivo. Non per scusarsi, no, ma per chiedermi se io
non avessi casomai cambiato idea.
Mi venne da
vomitare.
Ho raccontato di
questa molestia a pochissime persone. Quasi nessun’ “amica” dell’epoca mi
mostrò solidarietà. Ho nascosto quest’esperienza repellente in un angolino
della mia mente, sotto le etichette del “è capitato a tutte” e “mi è andata
bene”.
Ero giovane,
inesperta e certamente con una coscienza di me molto meno radicata. Non
considerai il poter denunciare il ricatto subito giacche’ ero convinta che
sarebbe stata la mia parola contro la sua: un uomo potente e rispettato – e mi
fa schifo sapere che lo è ancora adesso.
Avevo paura di
non essere creduta, di essere additata come “quella che se l’è cercata” solo perché
magari avevo davvero indossato un vestitino celeste inappropriato – così
allegro, colorato; solo perché davvero avevo accettato di prendere il caffè al
bar insieme la mattina prima di iniziare a lavorare.
Come se fossi io
a dover chiedere scusa per occupare uno spazio in modo personale, per essere vivace,
non diffidente. Per essere me stessa. Come se l’aver detto sì ad una colazione
di lavoro implicasse il dire sì ad inginocchiarsi dietro ad una scrivania per
mantenere un impiego.
Avevo competenze
e bravura, lo sapevo allora e lo so adesso. Ho una discreta autostima, e
ciononostante mi feri molto essermi sentita dire che ero stata scelta per il
mio “bel faccino”. Aver subito il ricatto di poter continuare a fare un lavoro
che amavo, e nel quale mettevo impegno e passione, solo se fossi diventata l’amante
del capo è stato prima di tutto un modo per sminuire la mia professionalità, e
poi per insidiarmi come persona.
Oggi, nonostante
siamo stati inondati di dichiarazioni post #metoo la mia esperienza potrebbe
passare in sordina, in secondo piano, agli occhi di tanti benpensanti. In fin
dei conti “non è successo niente”. E invece no. È successo tutto. Non c’è
bisogno di consumare una violenza per avere il diritto di provare disagio e
imbarazzo. Le avances sul posto di lavoro non son semplici avances. Minano l’amor
proprio, innescano meccanismi ricattatori, svalutano sistematicamente chi le
subisce. Principalmente donne, principalmente giovani.
La persona che
son diventata oggi non esiterebbe a mettere alla gogna questo sedicente
professionista, ma la ragazza che ero è soltanto riuscita a far finta di niente,
domandandosi tuttavia per molto tempo se qualcuno avrebbe mai creduto alle sue
parole e incassando sorrisetti maliziosi o – nel migliore dei casi – sguardi
sconsolati.
Quell’uomo ha
potuto probabilmente nutrire il suo ego con il mio sentirmi impotente, con la
mia espressione sconvolta, con la mia rabbia per essere stata trattata
ingiustamente. Ha potuto esercitare un potere derivato dal ricatto e,
probabilmente, avrà goduto nel continuare a farlo. Ecco, se c’è un solo motivo
per il quale mi sento in colpa adesso, è questo. Nessuno lo avrà fermato.
Pensare che esseri simili possano – un domani – trattare mia figlia allo stesso
modo, è l’unica ragione per cui posso avercela con me stessa.
Nel tempo, grazie
ad una buona educazione, ho avuto la fortuna di aver introiettato un’idea di
rispetto, di femminismo e di giustizia che mi hanno portato a comprendere
l’errore alla base di certi meccanismi automatici di pensiero, spesso
sovrapposti ad arretratezza, degrado o inconsapevolezza. Ho sposato un uomo che
non sa che farsene del concetto di mascolinità tossica propinato spesso con
molto fervore. Ho avuto ex (ex mica per caso) che si son pavoneggiati nell’aver
inflitto lo stesso trattamento da “oggetto sessuale” alle proprie stagiste. Ho
conosciuto donne che occupano posti dirigenziali ricevere complimenti dal capoufficio
maschio di turno per “essere tornate in forma dopo il parto”, come se questo ne
determinasse le performance lavorative. Ho conosciute donne licenziate perché
incinte.
Ma ho anche
incontrato donne promosse durante la maternità. Ho avuto amici che hanno
usufruito di tutto il congedo di paternità disponibile, trascorrendo mesi a
casa con i propri bambini. Ho incontrato burocrati illuminati che hanno scelto
persone per incarichi di responsabilità solo sulla base di competenze. Ho
amiche che insegnano alle proprie figlie ad essere donne informate e in grado
di autodeterminarsi.
E alla fine, dopo
anni e anni trascorsi lontana dal profondo degrado di molti ambienti lavorativi
italiani, son riuscita a perdonare me stessa per essere stata incapace di far
sentire la mia voce quando avrei potuto.
Alle ragazze di
oggi, a quelle di domani, a mia cugina, a mia figlia: a loro, e a loro
soltanto, dovremmo noi tutti delle scuse. Per pretendere, spesso, quello che le
loro madri e le loro nonne, i loro padri e i loro fratelli non son riusciti a
fare: avanzare senza paura nel difenderne i diritti.
Brava :-;
RispondiElimina