Chi è che indossa collant viola? Probabilmente me lo devo essere chiesta anche io per molto tempo, dato che solo oggi ho aperto un pacchetto sopravvissuto ad una svendita nel negozio di mia madre, ad un trasloco internazionale e a vari cambi di stile.
Ancora più
meravigliosamente strano del fatto che io abbia trovato un modo per indossare
quelle calze è che nascondevano un segreto. Un minuscolo e spiegazzato
foglietto, senza data, con alcune cancellature e una sfilza di parole dedicate
a una persona che è stata importante una vita fa. Provo tenerezza per essere
stata così naïve, visto che oggi ho finalmente trovato la giusta cornice per
quel quadro storto, ma ciò non toglie la bontà dello scritto, appassionato ed
autentico.
Ho riflettuto un
attimo sul pubblicarlo o meno e ho deciso per il sì. Sarà a causa del fatto che
ho perso tantissimi pizzini di quando ero nei miei mitici 20 e quindi ritrovarne
uno mi ha particolarmente emozionato.
La me di allora buttava giù più o meno questo:
“Dunque,
ricapitoliamo. Uno sta alla Feltrinelli per ingannare
l’attesa mentre il treno è in ritardo. Vede un libro, quel libro, e prova il
bisogno impellente di fare una foto alla copertina. Niente di troppo esplicito, neppure il titolo è leggibile. La devi voler
capire, quella foto.
Ora, poteva
finire così. Tuttavia, una si incuriosisce e allora decide a propria volta di
mandare una foto. Solo una foto, senza didascalia e senza indizi. Passano pochi
minuti e arriva un messaggio. Una risposta, un occhiolino. Due parole: “Marla,
ovvio.” Un altro occhiolino. È scontato: tu vedi quel libro e pensi a me.
Schegge di sentimento. Io vedo quel libro e penso a noi. A quando quel libro
era il nostro pane quotidiano.
La breve
conversazione che ne segue potrebbe anche non essere mai esistita. Le minuzie
dell’ordinario non fanno presa su di noi.
Dimmi tu, comunque, il senso di quella citazione. Dimmi tu a cosa serve. Dimmi tu per quale ragione giocare. No, nessun giochino, potresti obbiettare. Solo un momento nostalgico. Sarà. Schegge di sentimento. È che devo ancora capire che nome darci, a questo sentimento. Lusinga? Arroganza? Superbia?
Sai cosa mi piacerebbe? Mi piacerebbe sapere se e' vero anche per te che c'e' una piccola parte malata del nostro cervello che ci fa fare gli stessi
arzigogoli mentali: una trappola seducente finché non cerchiamo di tradurli in
realtà.
E ancora io mi
chiedo se anche tu, al di là di ogni obbligo, di ogni scelta, al di là di ogni
amore – vero, concreto, pulito, reale – non vorresti sapere se per entrambi
esiste ancora il piacere di un momento insieme, di uno sguardo, di un ricordo
condiviso, quello che ci pare. Se esiste ancora uno sciame sismico di parole
tra noi. Le parole giuste però. Quelle che ti fanno giocare a carte scoperte,
come queste. Quelle che ti fanno dire di sì anche se non ti fanno fare niente,
non ti muovere, non ce n’è bisogno. Sussurra solo il mio nome. Il tuo nome.
Solo una volta, solo un saluto, solo una confessione e poi nient’altro. Perché
non c’è bisogno di infangare nulla. Non c’è bisogno di scendere a patti con sé
stessi. Non c’è niente da buttare alle ortiche stavolta.
Perché tutto
abbiamo già vissuto e tutto abbiamo bruciato. Tutti i limiti abbiamo già una
volta superato. Però, dimmi, tirare il capo di quel filo e vedere se qualcun
altro risponde – per una volta, una volta sola, una volta ancora – dimmi: non è
qualcosa che vorresti sapere anche tu? Solo per ammettere: sì, siamo stati
importanti. In che modo e in che forma, chi se ne importa. D’altra parte, non
abbiamo mai puntato alla convenzionalità, noi. Ti lascio alla tua vita e tu
lasciami alla mia. Le nostre vite perfette, che’ perfette per noi lo son
davvero, io ci credo. Qui non si tratta di dover accettare nessun triangolo,
nessuna presenza ingombrante, niente di niente. Solo quel filo. Solo quella
piccola scossa. Solo sapere. Solo un sorriso. Solo un arrivederci invece
di un addio.”
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