domenica 19 marzo 2023

Il danno di J. Hart - una personalissima recensione

“C’è un paesaggio interiore, una geografia dell’anima; ne cerchiamo gli elementi per tutta la vita. Chi è tanto fortunato da incontrarlo, scivola come l’acqua sopra un sasso, fino ai suoi fluidi contorni, ed è a casa. Alcuni lo trovano nel luogo di nascita; altri possono andarsene, bruciati, da una città di mare, e scoprirsi ristorati nel deserto. Ci sono quelli nati in campagne collinose che si sentono veramente a loro agio solo nell’intensa e indaffarata solitudine della città. Per qualcuno è la ricerca dell’impronta di un altro; un figlio o una madre, un nonno o un fratello, un innamorato, un marito, una moglie o un nemico. Possiamo vivere la nostra vita nella gioia o nell’infelicità, baciati dal successo o insoddisfatti, amati o no, senza mai sentirci raggelare dalla sorpresa di un riconoscimento, senza patire mai lo strazio del ferro ritorto che si sfila dalla nostra anima, e trovare finalmente il nostro posto.” J.Hart


Credo che, a prescindere dal fatto che possa piacere o meno lo stile della Hart – poetico, evocativo eppure algido, di elegante bellezza formale – Il danno diventa parte del proprio intimo immaginario se ci si è trovati nella stessa condizione descritta dal protagonista nelle prime righe: aver cercato, e magari trovato, la propria geografia dell’anima.

In genere, avviene con una devastazione o con un’epifania. Da un incontro, come nel libro. Poi, bisogna decidere cosa fare della scoperta. Appagarla. Domarla. Consumarla. Implodere con essa. Ignorarla. Io, per esempio, ho imparato a tenere a bada il demone, Stephen no. Sia chiaro: qui il punto non è Anna. Anna è un pretesto, andare a letto con Anna è un mezzo. Ciò di cui Stephen ha bisogno è il dolore di Anna, quel farsi schiava di Anna, il dominio assoluto su Anna – ma ne siamo poi certi? – per perdere quello di sè stesso. Tutto, sempre. Troppo.

C'e' un party, e ci sono uno scambio di sguardi e una semplice presentazione. Mi ricorda qualcosa di molto personale: il mio patto col diavolo. E però io, non tanto per meriti quanto per circostanze, son riuscita a elaborare e a incorporare – regalandomi solo una sconsiderata perdita dell’innocenza; Stephen, invece, siglerà quel patto col sangue del figlio, l’incolpevole, la vittima, colui che – con il suo inconsapevole sacrificio – libererà Anna del suo ruolo e crocifiggerà per sempre il padre al proprio grumo di dolore.

L’ho detto e lo riscrivo: Il danno è uno di quei libri spartiacque. C’è un prima e c’è un dopo averlo letto. Letto poi non è forse la parola giusta nel mio caso. Io mi ci son buttata a capofitto, ho corso a perdifiato tra le pagine, ne son stata ossessionata per due giorni e due notti, mi è venuta quella specie di febbre che mi prende quando leggo libri intensi e devastanti. Vivo in una sorta di momento rarefatto e benedetto, in cui posso gustare ogni parola, ogni virgola, ogni pagina perché la quotidianità rallenta e “ammalarmi” mi permette di vivere solo in funzione di quello che accade tra le pagine. Il danno è un libro da febbre, ma soprattutto da delirio – ecco. Come lo son stati Una manciata di more, Cime tempestose, La casa degli Spiriti, Fight Club, L’alcol e la nostalgia. Se potessi scegliere un modo per appagare la mia vanità, quel modo sarebbe sicuramente aver scritto io uno di quei romanzi. Vivere tutto. Troppo. Per sempre.

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